Porno Trash

Porno Trash è una performance in due tempi centrata sul tema del corpo, della sua oppressione, della sua liberazione, della percezione/costruzione sociale della nudità e del corpo come spazio e laboratorio di pratiche e di relazioni. Nella prima parte, le/i* performer, accompagnat* da un sottofondo musicale, leggono testi di vari* autor* (da Monique Wittig a Michel Foucault, a bloggers, passando per testi scientifici e fanzine) che raccontano il processo di addomesticamento del corpo e del suo controllo politico e sociale. Durante le letture, l’attenzione viene spostata dal ‘corpo’ in generale al ‘corpo delle donne’ , ai valori ad esso attribuiti e alla violenza su di esso esercitata, riassunto dalla frase “Il mio corpo è un campo di battaglia”. In seguito l’attenzione passa sul corpo de* performer e sulla sua riappropriazione attraverso la sessualità, il desiderio, la scelta, riassunto dalla frase “Il mio corpo è un campo giochi”. Nel corso delle letture la/il* performer si toglie i vestiti che mette in un sacchetto nero dell’immondizia posto accanto a lei.

Nella seconda parte l’attenzione viene spostata sul pubblico e su interventi dalla sala, in una sorta di ‘contagio’ dell’euforia della nudità e del corpo libero.

La performance gioca con i simboli dell’infanzia come momento in cui la nudità non ha ancora acquisito il valore sociale e i giochi in qualche modo coinvolgono la sfera della sessualità e delle relazioni. Il messaggio centrale in questa parte è il ruolo del corpo e della nudità nella creazione/rafforzamento delle relazioni e nella trasmissione/diffusione del ‘coraggio’ di trasgredire.

L’EUPHORIE DU CORPS REBELLE

 

Atelier cabaret postporno : comment transformer le corps en champ de bataille et de jeu

La mémoire de nos corps est faite de mots et de signes.
Des mots qui nous ont marqué.e.s, qui ont ouvert avec joie et fermé avec violence nos parcours vitaux, nos aventures, nos réalisations intimes.
Des signes qui sont restés collés à notre peau pour nous rappeler des souffrances, des mutations, le prix de notre liberté. Nous voulons nous réapproprier ces mémoires : avec l’arme de l’ironie nous les ferons devenir un spectacle, nous allons mettre en scène la peur et le courage qui nous ont fait devenir ce que nous sommes.

Zarra Bonheur – collectif transnational de recherche et production artistique – propose une expérience de création partagée et un spectacle DIY axé.e.s sur la relecture du corps comme texte et sur l’expérimentation performative multimédia.
Deux journées d’auto-narration, partage et invention qui vont se conclure avec la réalisation d’un cabaret collectif formé par des sketch drôles, dramatiques et tragicomiques qui, à travers des médias divers (musique, photos, vidéos, danse), raconteront les histoires de nos corps et leurs trajectoires de libération.
Chaque participant.e sera invité.e à recueillir à l’avance des idées et des documents de tous genres qu’on partagera et ré-élaborera ensemble pour construire des restitutions performatives qui constitueront le cabaret.
Nous allons travailler sur l’empathie comme force conductrice pour faire de la scène un espace à travers, convivial, grâce au renforcement des compétences de chaque personne et des compétences nouvelles qu’on va acquérir ensemble. Nous allons stimuler le contact et la complicité entre les corps, nous allons valoriser les affinités et les divergences pour représenter l’éventail de toutes les façons possibles de sortir les corps de l’oppression que nous vivons comme sujets hors norme ou dérangeants.

Porno Trash

Porno Trash è una performance in due tempi centrata sul tema del corpo, della sua oppressione, della sua liberazione, della percezione/costruzione sociale della nudità e del corpo come spazio e laboratorio di pratiche e di relazioni. Nella prima parte, le/i* performer, accompagnat* da un sottofondo musicale, leggono testi di vari* autor* (da Monique Wittig a Michel Foucault, a bloggers, passando per testi scientifici e fanzine) che raccontano il processo di addomesticamento del corpo e del suo controllo politico e sociale. Durante le letture, l’attenzione viene spostata dal ‘corpo’ in generale al ‘corpo delle donne’ , ai valori ad esso attribuiti e alla violenza su di esso esercitata, riassunto dalla frase “Il mio corpo è un campo di battaglia”. In seguito l’attenzione passa sul corpo de* performer e sulla sua riappropriazione attraverso la sessualità, il desiderio, la scelta, riassunto dalla frase “Il mio corpo è un campo giochi”. Nel corso delle letture la/il* performer si toglie i vestiti che mette in un sacchetto nero dell’immondizia posto accanto a lei.

Nella seconda parte l’attenzione viene spostata sul pubblico e su interventi dalla sala, in una sorta di ‘contagio’ dell’euforia della nudità e del corpo libero.

La performance gioca con i simboli dell’infanzia come momento in cui la nudità non ha ancora acquisito il valore sociale e i giochi in qualche modo coinvolgono la sfera della sessualità e delle relazioni. Il messaggio centrale in questa parte è il ruolo del corpo e della nudità nella creazione/rafforzamento delle relazioni e nella trasmissione/diffusione del ‘coraggio’ di trasgredire.

Questo porno che non è un porno

 

di Rachele Borghi

Non è più possibile scegliere la non rappresentazione della sessualità perché senza rappresentazione non c’è sessualità. L’unica cosa che possiamo scegliere
è una forma di proliferazione critica di rappresentazioni sessuali.
Beatriz Preciado, 2011b, p. 160.

«Step right up, hi, how are you? Thanks for coming! You are welcome». Con queste parole la celebre star (post)porno Annie Sprinkle accoglieva all’inizio degli anni Novanta coloro che si avvicinavano non alla soglia della sua casa ma a quella della sua cervice. Realizzava così la prima performance postporno dal vivo.

Sebbene sia difficile determinare con esattezza una data di inizio di una produzione postporno propriamente detta, si può affermare che A public cervix announcement segna definitivamente il passaggio dalla produzione di un porno mainstream a quella di un porno connotato politicamente e con obiettivi di impatto/cambiamento sociale [1]. Questa performance, infatti, racchiude in sé molte delle caratteristiche che possono essere attribuite al postporno: caduta definitiva della divisione tra pubblico e privato, uso dell’ironia, rottura del binomio soggetto/oggetto, eliminazione del confine tra cultura alta (quella artistica) e bassa (pornografica) [2], coinvolgimento degli/delle spettatori/spettatrici, condivisione pubblica di pratiche collocate nella sfera del privato, denuncia della medicalizzazione dei corpi, rovesciamento e messa in discussione del rapporto sesso/sessualità, uso di protesi (lo speculum, in questo caso). Il postporno rompe con tutti quei binomi attraverso cui la sessualità viene rappresentata e performata, per enfatizzarne il valore politico e farla uscire dalla sfera del privato in cui è stata relegata.

Si tratta di un fenomeno fluido, che cerca di liberarsi da ogni tipo di etichetta. Sono gli/le stess* protagonist* ad autodefinirsi «postporno»; allo stesso tempo, però, rifiutano l’idea di far parte di un movimento omogeneo accomunato da caratteristiche definibili e dai tratti ben demarcati [3]. La letteratura sull’argomento comprende, nella maggior parte dei casi, blog, siti Internet e materiale di descrizione del fenomeno prodotto dalle stesse performer o da attivist* queer [4]. La produzione della cultura postporno, infatti, si caratterizza per il tentativo di sperimentare la soppressione del confine tra teoria e pratica, grazie anche al «Do it yourself» che, in questo caso, rende possibile la liberazione dal giogo della citazione e della referenzialità. La letteratura scientifica incentrata sul postporno, invece, è ancora rara [5]. Forse anche perché il postporno, sulla scia del femminismo pro-sex, vuole raccontarsi dall’interno, far parlare i protagonisti, partire dalle esperienze, lasciando da parte e talvolta perfino rifiutando il discorso degli «esperti»: «Il corpo, il piacere, la rappresentazione pornografica, il lavoro sessuale [per il femminismo pro sex] sono degli strumenti politici… La parola di quelli che sono direttamente interessati prevale sulla parola degli esperti» (Despentes [e Bourcier], 2011) [6].

Pur facendo riferimento alla queer theory nel suo insieme, le performer citano direttamente alcune autrici e testi diventati veri e propri manifesti di un femminismo dissidente transgenere. È il caso, di Beatriz Preciado, che con Manifesto contra-sessuale pone l’accento su quegli strumenti concettuali ereditati dal femminismo e dalla tradizione filosofica francese adatti alla produzione di strategie efficaci nel contesto politico contemporaneo (Borghi, 2002, p. 12). Inserendosi così nel solco tracciato dal terzo femminismo [7], Preciado apre definitivamente la strada al transfemminismo, un femminismo trasversale al sesso e al genere che legittima l’esistenza di identità fluide caratteristiche della società post-identitaria, in cui «le nostre alleanze più prossime devono essere transgeniche, transessuali, anticoloniali. Queste sono le nostre alleanze, questo è il luogo del femminismo oggi» (Preciado, 2011b, p. 160) [8].

Al Manifesto fa seguito Testo Junkie e l’inedito Terrore anale, insieme a King Kong girl di Virginie Despentes, la trilogia Queer Zones di Marie-Hélène Bourcier, Devenir Perra [9] di Itziar Ziga e Post Porn Modernist di Annie Sprinkle. Le performer riconoscono quindi non solo l’eredità dei capisaldi della queer theory come Judith Butler, Teresa de Lauretis o Donna Haraway, ma la mettono in relazione con le riflessioni contemporanee provenienti dal contesto accademico e da quello della militanza, messi esattamente sullo stesso piano. Se nel femminismo pro-sex la voce degli esperti viene sostituita da quella delle protagoniste stesse, legittimate anch’esse a produrre conoscenza, le performer postporno citano contemporaneamente teoriche e attiviste/protagoniste, rompendo ancora una volta il binomio teoria/pratica e rendendo possibile la polifonia contra-teorica.

Ma in questo contesto «fluido», è possibile rintracciare dei tratti distintivi della produzione postporno? Pur nella loro varietà, le performance, soprattutto quelle live, presentano dei denominatori comuni:

Uso delle protesi. Con riferimento al corpo cyborg di Donna Haraway (1999), le performer usano le protesi per estendere e potenziare la loro sessualità. In questa maniera, richiamano non solo la body art, ma entrano direttamente a fare parte delle culture di resistenza ispirate allo stile di vita «do-it-yourself» (McKay, 1996) e alla scena postpunk che usa la tecnologia e gioca con essa muovendosi agevolmente nel cyberspazio [10]. Oltre a ciò, il riferimento diretto è al sado-masochismo e alle pratiche Bdsm.

Centralità dell’ano. Nel transfemminismo l’ano acquista un ruolo centrale. In Manifesto contra-sessuale Beatriz Preciado sostiene che i lavoratori dell’ano siano i nuovi proletari di una possibile rivoluzione contra-sessuale. L’ano infatti «travalica i limiti anatomici imposti dalla differenza sessuale […]; è un centro produttore di eccitazione e di piacere che non figura nella lista dei punti orgasmici prescritti […]; è una fabbrica in cui il corpo si ricostituisce come contra-sessuale» (Preciado, 2002, p. 35).

Rottura dei binarismi. La critica alla sovrapposizione tra genere/ses- so/sessualità trova qui una delle sue espressioni più forti e concrete. La delocalizzazione del sesso resa possibile dall’uso delle protesi, la rappresentazione di corpi androgini, la rinuncia alla condizione di uomo e donna con il conseguente abbandono dei privilegi che da essa derivano, libera e svincola definitivamente il genere dal sesso, dando legittimità e visibilità alle sessualità dissidenti.

Critica del capitalismo. La volontà di non inserirsi nei canali di diffusione del porno mainstream, nei luoghi ad esso dedicati e nei circuiti ufficiali risponde alla forte componente di critica al capitalismo. VideoArms Idea rielabora questo tema nella live performance Porno-capitalismo: «La sfacciataggine e la follia del capitalismo han determinato l’autorità trasformando i corpi. Corpi di donne, gay, lesbiche, trans, bisessuali, queer, malati, pazzi, diversamente abili, anoressici, grassi, troppo belli o troppo brutti, bambini, perversi, stranieri, sfigati, territori occupati e controllati da una continua mani- polazione che agisce su tutti i livelli della percezione della realtà e dell’esistenza. La comunicazione diventa merce, le relazioni rapporti di diffidenza e vigilanza, il contatto scopo, la vita esperienza annullata. […] La sessualità stessa incarna i codici di questa politica della corporeità morta. A partire dal rifiuto di questa meccanica e mediando tra testa e viscere, rielaboriamo i nostri corpi e le nostre coscienze con un sentimento d’amore folle e con una spregiudicatezza carica di poesia» (Video Arms Idea, 2011).

Corpo come laboratorio di sperimentazione. Il corpo diviene luogo, prodotto, mezzo, manifesto, artificio, strumento di sovversione, di critica, di reazione alla violenza della società normata che «ferisce costantemente il mio corpo» (Diana Pornoterrorista, in Borghi, 2011b).

Lavoro sulle pratiche. La valenza politica della performance ha un suo terreno di prova nei workshop aperti al pubblico. Essi acquistano un valore politico, da una parte, per l’elaborazione delle idee e la loro trasformazione in progetti, dall’altra per la diffusione dei lavori e delle riflessioni. In questo modo il processo di produzione artistica si lega in maniera stretta a quello di trasmissione. Alla decostruzione del genere e della sessualità si affianca la messa in discussione del proprio rapporto con le costruzioni e costrizioni sociali (Slavina, 2011).

La portata dirompente del postporno nel rompere le categorie, nello scardinare la presunta neutralità dello spazio pubblico etero-normato [11], ma soprattutto il suo valore politico e di critica sociale è ciò che fa affermare a molt*: «ecco perché ci piace il postporno» (Femminismo a Sud, 2011). Ma la postpornografia può essere davvero esclusiva? Può riuscire a non incorrere nel rischio di invisibilizzazione e/o silenzio di tutti quei soggetti postcoloniali tagliati troppo spesso fuori anche dai discorsi critici? O al contrario corre il rischio di essere criticata come un fenomeno bianco e occidentale? Prova a rispondere Beatriz Preciado: «Penso che la questione non debba essere se ci siano donne nere che performano all’interno dei gruppi postporno. La questione è, piuttosto, quali sono le pratiche di critica e di resistenza, di produzione del corpo che emergono dai movimenti anticoloniali in sé. Bisogna fare attenzione a non riprodurre le dinamiche di integrazione multiculturale, mettendo qualche persona nera a performare con noi… […] Credo che, sì, nella critica dei modelli di produzione della mascolinità e della femminilità bianca eterosessuale ci sia anche una critica coloniale, per forza, e che questa critica coloniale passerà per l’alleanza strategica tra i movimenti queer europei e i movimenti neri, latinoamericani, i movimenti degli immigrati. […] non riesco a essere negativa rispetto al movimento queer, non vedo assolutamente persone bianche che stanno performando; quello che vedo nelle performances postporno è una critica dell’eterosessualità mainstream» (Beatriz Preciado, in Borghi, 2011a).

Così, inserendosi all’interno del transfemminismo, il postporno tenta di supera la forma d’arte, cercando di andare a toccare e incrinare i dispositivi di dominio.

 

 

1 Per un’introduzione in italiano ai porn studies si veda E. Biasin, G. Maina e F. Zecca, 2010.

2 Sull’uso strumentale dell’etichetta «porno» da parte della critica per declassare un certo tipo di produzione cinematografica si veda il caso del film Baise-moi di Virginie Despentes, analizzato da Marie-Hélène Bourcier, 2011.

3 È quello che si riscontra nelle parole di alcune performer intervistate da Lucía Egaña Rojas nel suo documentario Mi sexualidad es una creacion artistica (2011), incentrato sulla scena postporno spagnola.

4 Rinviamo, tra gli altri, al sito Malapecora, creato dalla scrittrice e attivista Slavina (www.malapecora.noblogs.org). Slavina è stata definita da Diana Pornoterrorista «la nostra rete, il nostro punto di contatto» per il suo lavoro di raccolta di materiale, restituzione degli eventi, rielaborazione e riflessione sui temi e sull’attualità postpornografica (si veda Borghi, 2011c). Il suo sito è diventato un vero e proprio punto di riferimento, in particolare per l’Italia dove, di fatto, la scena postporno è inesistente, ma si avvertono un interesse e un fervore crescente. Si veda anche la rubrica «Postporno» della rivista XXDonne (www.xxdonne.net).

5 Si veda il testo curato dallo studioso e artista Tim Stüttgen Post Porn Politics, 2009 a seguito della conferenza Post/Porn/Politics tenutasi a Berlino nel 2006.

6 Il documentario Mutantes. Féminisme porno punk (2011), da cui è tratta questa citazione, è firmato da V. Despentes. Le interviste sono state realizzate dalla regista insieme con Marie-Hélène Bourcier.

7 Sul terzo femminismo e i suoi rapporti con il lesbo-queer si veda L. Borghi, 2006.

8 Pur restando Manifesto contra-sessuale un testo di riferimento, è in realtà il successivo Testo Junkie ad essere considerato oggi il vero manifesto del transfemminismo.

9 www.devenirperra.blogspot.com.

10 Su controcultura e tecnologia si veda, tra gli altri, Dery, 1997.

11 Rinviamo a Borghi, 2012.

Géographie et sexualités : repolitiser la ville

Géographie et sexualités : repolitiser la ville

 

Publié par Les Cafés Géo, le 6 septembre 2014 à 15:57 | Rubrique : Les comptes rendus, Paris

 

Café géographique au Café de Flore, Paris
Mardi 27 mai 2014

Avec Cha Prieur et Rachele Borghi (Université Paris-Sorbonne)
Animation Judicaëlle Dietrich

Rachele Borghi revient sur ces thématiques courantes mais peu connues, car invisibilisées ou ignorées. On pense parfois que ces questions ne concernent pas la géographie. L’idée est d’expliquer comment des géographes regardent la ville, et plus largement l’espace, en ajoutant une catégorie d’habitude cantonnée à la chambre à coucher. A travers la sexualité, on mélange les autres catégories pour faire sortir quelque chose du chapeau.

La géographie des sexualités est assez ancienne

Les lectures des sexualités dans les espaces urbains datent déjà des années 1970 aux Etats-Unis. On s’est alors surtout penché sur les formes spatiales des communautés gays et lesbiennes qui polarisaient les questionnements initiaux : les sexualités autres. Le principal apport de la géographie à l’époque était de cartographier des zones résidentielles gays dans les villes américaines. Culture, consommation, espace urbain : les communautés gays interviennent dans le processus de gentrification des villes. Dans les années 1990, la question est abordée différemment : comment l’hétéronormativité influence l’espace public. L’espace public n’est pas qu’un support, une scène, mais il est conçu selon des normes hétérosexuelles et influence les normes sexuelles. L’hétéronormativité apparaît comme une injonction, une obligation. On la transforme en norme. Les hétérosexuel.le.s ont un accès légitime à l’espace public. Les sexualités produisent des espaces d’inclusion et d’exclusion. On abandonne l’approche cartographique et on se concentre sur les rapports entre espace, identité et pouvoirs. On crée des espaces de pouvoir, avec des catégories dominantes. La géographie féministe renouvelle ces questionnements. L’idée était de rendre visibles les sexualités dissidentes, afin de résister à l’hétéronormativité. S’y ajoutent l’étude de la bisexualité, et l’étude des trans. Ces sexualités et ces genres non normatifs ont un impact sur l’espace.

Les points faibles sont les suivants : la production scientifique est très liée au contexte gay, des hommes blancs étudient des zones commerciales, où la culture gay était prévalente. Le point fort creusait le lien entre sexualité et espace. Cela éclaire la production de connaissances géographiques – des connaissances situées, qui viennent d’un certain point de vue. Il faut voir comment le monde académique est lui aussi hétéronormé. Le prisme de la sexualité visibilise le caractère situé de la production de la connaissance, surtout assurée par des hommes blancs, riches, hétérosexuels.

En France, les études en géographie de la sexualité sont de plus en plus répandues. Le travail de Marianne Blidon a porté l’attention sur le fait que les personnes ne se questionnaient pas sur ces problématiques de recherche. Le monde académique français devait alors considérer un objet jusque-là considéré comme illégitime.

Charlotte Prieur définit les géographies queer

Le terme est employé depuis la fin des années 1990 en géographie anglophone. Mapping desire de Bell et Valentine date de 1995 et définit déjà les termes de queer et queer space. Queer était initialement une insulte à l’encontre des homosexuels et des travestis. Cette insulte a été réappropriée par une frange de ceux qu’on appelait les homosexuels, en signe d’empowerment, afin de porter cette identité. Le terme est très polysémique. Il faut donc saisir les lignes de définition :

1-      Non hétérosexuel. Personne n’ayant pas une sexualité hétérosexuelle ou monogame, dans une visée reproductive

2-      Les queer ne s’assimilent pas aux catégories gay et lesbienne, car ils critiquent l’homonormativité. Ils reprochent aux gays et dans une moindre mesure aux lesbiennes de reproduire une forme de norme, excluant entre autres les transgenres et les bisexuels. Ils dénoncent aussi le sexisme présent dans les quartiers gay.

3-      Théorie queer mais aussi milieux militants queer.

On passe d’UNE géographie des sexualités à une multiplicité des géographies et des théories queer.

Ces théories et ces  géographies queers ont une origine bien particulière. Le post-modernisme a beaucoup influencé. Francine Barthe, Béatrice Collignon, JF Staszak, Claire Hancock, Louis Dupont défendent cette position.

Béatrice Collignon et Jean-François Staszak l’expriment notamment dans un article qui a fait suite au fameux débat sur l’intérêt du postmodernisme dans  l’Espace Géographique. Ils affirment :

« Plus que par de nouveaux objets, la géographie postmoderniste se caractérise par de nouvelles approches. À propos des quartiers homosexuels, elle met notamment en avant la construction sociale et spatiale de la norme hétérosexuelle pour interpréter ces quartiers en termes de stratégies communautaristes et d’exclusion. On ne peut comprendre l’existence du quartier gay sans partir d’une interrogation sur ce que c’est qu’être homosexuel, sans déconstruire les catégories homo-/hétérosexuel. »(Collignon et Staszak, 2004, 40-41)

Cette approche permet de faire apparaître la construction sociale et spatiale de la norme hétérosexuelle pour interpréter ce quartier en termes de stratégies communautaristes. Il faut déconstruire la catégorie homosexuelle pour comprendre ce quartier.

Les théories féministes ont aussi joué un rôle majeur

Duncan, Massey, McDowell, G Valentine, G Rose ont assuré la transition entre théories féministes et théories queer. En France, longtemps il y a eu une opposition entre théories féministes et théories queer. Nathalie Oswin n’est pas du tout d’accord avec la définition de queer space de Bell et Valentine : car ces dernières utilisent queer comme synonyme d’homosexuel, occultant une partie de la population. L’appropriation de l’espace par les bi et trans déconstruisent les catégories. Si vous déstabilisez la binarité hommes/femmes, vous déstabilisez les catégories hétérosexuels/homosexuels. Déconstruire une de ces dichotomies déstabilise forcément l’autre. Les géographies queers vont au-delà des dichotomies hommes/femmes, espace public/espace privé, homosexuel/hétérosexuel. L’idée est d’étudier les communautés résistant à différents types de normativité.

De nouvelles pistes émergent : l’entre-deux des genres et des sexualités. Les genres sont perçus comme fluides : comment cette fluidité peut prendre place dans l’espace, et y-a-t-il des lieux autorisant l’expression de cette différence ?

Les lieux queer ne sont pas des quartiers gays et prennent diverses formes, depuis les saunas lesbiens de Toronto aux événements éphémères. Les trans ne se sentent pas à l’aise dans les lieux gays, donc mettent en avant des lieux queer qui ont une spatialité et une temporalité propres, bien différentes du quartier gay.

Dans sa recherche, Charlotte Prieur a commencé par faire une géographie assez « classique », une cartographie des lieux queers à Paris et Montréal mais leurs caractères éphémère et réticulaire lui ont permis de repenser des notions fondamentales de la géographie comme celle de lieu. En effet, les lieux queers se situent très souvent hors des quartiers gays et ne sont pas fixes. Il s’agit souvent de lieux éphémères qui se développent selon les événements proposés la plupart du temps via les réseaux sociaux, notamment Facebook.

Cela lui a permis aussi d’ouvrir de nouvelles perspectives, de réfléchir à des concepts qui sont moins interrogés comme celui de safe space en questionnant par exemple l’intérêt de rendre les lieux queers sûrs. Qu’est-ce que cela voulait dire ? Pour qui ces lieux étaient-ils sûrs ?

On peut aussi étudier les hétérosexualités non normatives : les quartiers de prostitution, ou les pratiques considérées par la société normative comme perverses ou sortant des normes, cf travail du sexe, sadomasochisme, pratiques sexuelles non normatives (telles que BDSM) peuvent aussi créer des espaces éphémères et réticulaires.

Enfin, les géographies queers vont au-delà des sexualités

Ces géographies sont aussi sociales, culturelles et politiques. Le concept d’intersectionnalité permet de ne pas surestimer le caractère critique de la seule déconstruction des catégories sexuelles. Il faut réfléchir à la reproduction des normes et aux rapports de pouvoir et de domination et ne pas invisibiliser les rapports de classe, de race et de genre. II faut au contraire les étudier ensemble. Queeriser notre analyse nous aide à positionner la sexualité au sein de constellations de pouvoir.

Cette géographie permet de comprendre les intersections : approches féministes, post-coloniales et matérialistes.

En France, on oppose traditionnellement géographie sociale et géographie culturelle, alors que la géographie anglophone ne les oppose pas. La géographie queer est donc à l’intersection de divers courants géographiques.

–          Qu’est-ce que la géographie des sexualités change et/ou apporte à la géographie en général

La vision de l’espace n’est plus dans le comptage des lieux. Il y a une prise en compte des corps dans leur matérialité, y compris celui du ou de la chercheur/se. Cela questionne aussi nos méthodes de recherche en géographie. Dans Queering methods and methodologies(2010), J. Halberstam propose de faire feu de tout bois face à un sujet nouveau, encourageant à la créativité. Il parle de « scavenger methodologies » ou méthodologies de flibustier. Aucune méthode n’est mauvaise en soi. Il y a bien sûr une attention portée aux catégories utilisées. Cela force à réfléchir à notre rapport aux personnes sur/avec lesquelles on travaille. Dans les quartiers gay, Charlotte Prieur ne voyait ni femme ni personne trans. Des lieux très normés finalement. Les lieux queer de Montréal, eux, sont beaucoup moins normés. Ces milieux sont devenus des lieux de vie pour Charlotte Prieur. Les personnes ne devenaient plus des enquêté.e.s mais des ami.e.s voire des collègues. Quel statut donner aux personnes dans ces espaces et dans sa recherche ? Plus que de simples enquêté.e.s ! De même la restitution de la recherche change. Ces personnes aident à co-construire sa recherche et font avancer sa propre pensée. Il faut donc développer des formes de restitution militante, mettre en place des espaces bienveillants, afin de ne pas reproduire une méthode coloniale et surplombante.

Rachele Borghi réfléchit sur la notion de performance

On parle beaucoup de tournant performatif. Le concept de performance est utilisé dans les travaux de Judith Butler : performance du genre – chaque personne réitère certaines postures, certains mots, certaines pratiques, et donc réitère une idée du genre en le naturalisant. Si une femme s’assoit d’une certaine façon ou touche sa chevelure d’une certaine façon, on va la qualifier de féminine. Une femme écartant les jambes pour s’asseoir va remettre en question sa féminité. La performance souligne l’apprentissage de la féminité et de la masculinité : on regarde et imite les autres, sans que tout cela soit explicité. Des langages avec lesquels on s’exprime reproduisent des choses dont on n’a pas conscience de faire. Il s’agit d’un langage performatif (cf « c’est une fille » va-t-on dire à la maternité. Cela révèle certaines caractéristiques définies par la médecine, cela va au-delà du constat. On naît nu mais on est déjà bien habillé par notre bagage de genre). La géographie a repris toute cette notion de performance et l’a reportée au rapport entre individus et espaces. Le corps est pris comme une sorte de lieu qui rentre en relation avec d’autres espaces. Le corps comme un lieu et comme une sorte de laboratoire : on peut travailler sur notre corps et apprendre à habiter notre corps. Les personnes ayant des corps considérés comme hors-normes doivent apprendre à les habiter. Le corps en géographie est étudié en tant que lieu et en tant qu’outil, comme un instrument pour rendre visibles certaines choses et véhiculer certains messages. Rachele Borghi s’est intéressé aux performances dans l’espace public par des sujets voulant s’engager dans certaines batailles pour la justice spatiale, afin d’accéder à l’espace public en mettant en scène le corps. Il peut y avoir une forme de fierté d’être hors norme mais surtout l’idée est de faire de son corps un outil pour porter un message, un objet politique. Une performance renvoie à des actions dans l’espace public : cf l’hommage à la femme du soldat inconnu du MLF ou encore le mouvement post-porn qui utilise le corps dans l’espace public pour poser la question des migrations par exemple. Selon Amandine Chapuis, géographe spécialiste de la notion de performance, la performance désigne la pratique en situation d’un individu en ce qu’elle participe à la reproduction et.ou à la subversion de ces normes. Le corps est mis en relation avec la production des identités.

Quelle est la place et la légitimité du champ de la géographie des sexualités en France ?

Ce champ a acquis une légitimité depuis la thèse de Marianne Blidon en 2007, permettant à d’autres chercheurs de s’interroger sur cette question. Il y a toutefois une forme d’homophobie intériorisée. Il faut donc réfléchir aux obstacles posés à la carrière. Quand on est doctorant, on est enchanté par son sujet et on a l’impression de faire avancer les choses. D’autres jours, c’est la dépression qui guette et la question de la légitimité du sujet se pose. Une fois que l’on a un poste, on fait un choix beaucoup moins obligé. Rachele Borghi ne se pose plus la question de la légitimité de son sujet. Il faut que le monde académique ait la capacité d’expérimenter des choses nouvelles pour garder sa capacité d’innovation.

Débat

Comment redéfinir les lieux ? Avez-vous des exemples de lieux d’événements éphémères ?

Charlotte Prieur rappelle que les lieux queer qu’elle étudie à Paris et Montréal sont des soirées qui n’ont pas lieu de manière régulière, ni dans les mêmes endroits, ni dans les milieux gay. Est-ce que ce sont des lieux ou juste des événements ? Le lieu n’est-il pas l’endroit où les personnes se rencontrent ? C’est souvent lié à Facebook. Il y a des soirées avec une atmosphère très précise auxquelles on est invité via les réseaux sociaux et qui n’ont pas lieu aux mêmes endroits.

Rachele Borghi rappelle que le lieu peut être créé.  La recherche scientifique peut-elle se libérer du papier imprimé ? Est-ce que les résultats de la recherche peuvent créer des lieux ? Il faut donc faire passer les résultats à travers le corps, à travers des performances dans plusieurs lieux, ce qui crée des lieux queer.

Ces lieux ont-ils une volonté d’affichage ou non ? Ou bien est-ce seulement sur les réseaux sociaux que le chercheur peut les repérer. La soirée « Rouge Bébé » se passait dans un bar, puis dans plusieurs bars différents. Elle se produit dans différents lieux parisiens. On garde le nom, mais on l’a fait changer de lieu. Ces communautés peuvent-elles se payer un lieu fixe ? A Paris, la Mutinerie rue Saint-Martin se définit comme un lieu queer. Mais ces lieux ne sont pas très visibles, car le lieu fonctionne sur des interactions affinitaires. Il est donc difficile de trouver les lieux queer. C’est par un entretien avec une personne de Montréal lui disant son dégoût du Village (le quartier gay de la ville) que Charlotte Prieur a cherché une soirée queer. L’invisibilité est aussi liée au manque de conditions matérielles pour créer un quartier queer. Il y a aussi la dimension sécurisée ou sécurisante. Dans les lieux queer, on parle beaucoup d’espace safe, sécurisés, où on ne subirait pas d’agression homophobe. Créer un quartier gay est aussi dangereux car il visibilise les personnes que des homophobes voudront agresser.

Rachele Borghi précise que la question visibilité/invisibilité se pose jusqu’à un certain point. Parfois il peut y avoir une volonté politique de visibiliser des identités autres. Queeriser quelque chose passe par la visibilisation de personnes perçues comme queer. A travers le corps, on met en place toute une série de relations : on partage des pratiques avec les autres dans les lieux queer.

Est-ce que les corps peuvent changer d’une catégorie à une autre ? Le corps est central dans ses recherches. Il n’y a pas une normalisation des corps. On a tou.te.s des corps différents. Tous les corps ont le droit d’être ce qu’ils veulent. Certaines caractéristiques appartiennent à ceux qui se reconnaissent comme homme ou celles qui se reconnaissent comme femme, mais il y a tout un éventail entre deux. Le corps est aussi politique. C’est un champ de bataille pour les féministes. Le corps devient autant un champ de bataille qu’un champ de jeu pour créer des relations avec les autres. Il n’y a pas de norme sur les corps. Dans ce genre de lieu, la question du corps âgé qui norme d’habitude beaucoup les relations entre les gens n’apparaît pas. Lors d’une performance, Rachele Borghi se trouvait sur scène avec deux autres personnes : une femme de plus de 60 ans et une personne trans. L’idée était de montrer que des corps sont très différents et ne rentrent pas dans les normes, mais que tous peuvent être queer.

Charlotte Prieur n’est pas d’accord avec Rachele Borghi sur ce point : en France les milieux queer sont plutôt jeunes (20-40 ans). De même quant aux rapports de race et de classe, il y a des corps exotisés. Ces lieux-là ne sont pas dépourvus de rapports de domination.

De quelle classe sociale sont issus ces gens-là ? Le fait d’être queer devient un dénominateur commun ou un ghetto de l’entre-soi ? Charlotte Prieur a cherché à savoir qui sont les personnes queer : ielle a lancé un questionnaire et les résultats montrent que beaucoup de personnes ont un fort capital culturel (beaucoup fréquentent l’université, les Master Genre de Paris 8 ou l’EHESS), mais il y a aussi des travailleurs du sexe, des personnes trans, des militant.e.s, des artistes. Il faudrait chercher pour savoir d’où viennent ces personnes queer en termes de milieux populaires ou de milieux bourgeois. Charlotte Prieur déteste le mot de ghetto : dans une société où la norme est hétérosexuelle, toute personne ne se conformant pas aux normes de genre est inévitablement stigmatisée, souvent agressée, pour être dans un ghetto dès qu’elle cherche un havre où elle peut être telle qu’elle est. Les lieux queer sont des lieux où on ne se sent pas en insécurité par rapport à d’éventuelles agressions homophobes, des lieux où on n’est pas toujours obligé.e de faire de l’éducation pour expliquer qui on est aux personnes intolérantes ou curieuses. En aucun cas, les lieux queers ne peuvent être confondus avec des  ghettos.

Les lieux queer sont-ils surtout féminins ? A Paris, il y a pas mal de meuf-gouines–trans. La non mixité parfois choisie pour créer des événements. A Montréal, la scène queer est beaucoup plus occupée par des personnes socialisées en tant qu’hommes.

Pourquoi tant de mots anglais ? La théorie queer est de plus en plus reconnue en ce terme. Il faut dire que c’est une théorie très internationalisée, donc qui fonctionne via l’anglais. Tout le monde utilise ce terme aujourd’hui, mais ça pose une question de l’impérialisme linguistique. En France, les milieux queer sont plutôt appelés milieux transpédégouines.

Qu’en est-il de la difficulté de rentrer dans ces milieux queer ? N’est-ce pas plus difficile en se présentant comme chercheur.e ? N’y a-t-il pas de la méfiance vu la volonté de rester cacher ? Ne faut-il pas que le chercheur ait déjà un positionnement queer ? Y-a-t-il de la place pour des chercheurs hétérosexuels ? Cette question pose la question de savoir qui a le droit de faire de la recherche sur qui. Il y a une production de la connaissance qui a contribué à renforcer des rapports de domination. Cf la médicalisation des sexualités non normatives. Il y a une méfiance fondamentale : à quoi va servir cette recherche ? Tu fais ta carrière aux dépens de mon corps. C’est une question centrale. Les chercheur.e.s ne sont jamais habitués à se positionner comme hétérosexuel.le.s. La norme est spontanément tenue pour évidente. Charlotte Prieur était plutôt dans les milieux LGBT et a migré vers les milieux queer. Ielle s’est toujours posé.e beaucoup de questions sur ce qu’ielle pouvait rendre à ce groupe. Ielle a donc travaillé la question de la restitution. La sécurité dans les espaces est-elle intéressante pour ces lieux queer ? Ielle essaie de partager ces réflexions via des universités d’été (Université d’Eté Euro-méditerranéenne des Homosexualités) ou une revue gratuite et en ligne (Revue PolitiQueer). L’objectif est de faire en sorte que cet échange soit le plus égalitaire possible. Mais aucun chercheur ne peut nier qu’on est redevable des personnes avec qui on travaille.

Il est dommage que des personnes aient dû partir faute d’avoir pu payer une consommation. Comment ces milieux queer s’inscrivent dans une vision politique ? Quelles relations de pouvoir qui se projettent, qui s’imposent, qu’on digère ? La question de la politisation est fondamentale. C’est une réflexion sur un usage de l’espace politique à travers les corps. Il faut veiller à queeriser les espaces, à travailler à leur porosité. Ce que l’on fait ce soir au café de Flore, on le fait dans tous les milieux : squats, centres culturels, rue, etc. il y a des milieux queer, qui portent des visions politiques, certains plutôt anarchistes auto-gérés occupant des squats. D’autres anticapitalistes, antiracistes, etc. il y a tout type de luttes porté par ces collectifs queer. Du point de vue de l’accessibilité, beaucoup de soirées queers, particulièrement à Montréal utilisent la formule »pay what you can » (PWYC) ou donnent un montant conseillé en précisant que personne ne sera refusé parce qu’ielle ne peut pas payer.

Nathalie Lemarchand, membre du CNU jadis, aujourd’hui membre du CoCNRS, souhaite répondre comme membre du monde académique qui a été bien interpellé ce soir. La recherche est tout à fait acceptée, dès qu’elle est convaincante scientifiquement. Il y a une ouverture vers des géographies marginales. Les géographies plus classiques, plus normées, ont aussi besoin de se justifier scientifiquement. La première thèse en géographie sur les sexualités (Marianne Blidon) a été validée pour sa valeur scientifique, plus que pour son originalité. Quant au terme transpédégouine, il y a un langage d’exclusion sous-jacent. Pourquoi faudrait-il utiliser un tel langage plutôt qu’un langage plus neutre scientifiquement ? Le terme queer est entré dans l’académie mais quand il était utilisé au dehors : par retournement du stigmate. Il faut sortir des cages/cases sociales. Le mot queer est passé dans le langage académique parce qu’on ne voit plus l’insulte derrière. Le recrutement de Rachele Borghi a suscité des débats à la Sorbonne, dans le reste des universités françaises, mais aussi au sein des milieux militants. Beaucoup d’autres chercheur.e.s ont bien du mal à être recruté. Cela concerne aussi les féministes, pas seulement les queer. Sur la question de la réappropriation de l’insulte, il s’agit d’une inversion : se moquer de ceux qui se considèrent comme normaux et qui insultent ceux qu’ils voient comme pas normaux.

On ne vit pas dans un ghetto queer, on ne mange pas queer, on se retrouve à un moment donné dans la semaine dans un lieu où on n’a plus à se protéger de l’homophobie ou la transphobie. C’est la violence de la société envers les minorités qu’elles qu’elles soient qui provoque la nécessité de retrouver des formes d’entre-soi moins violentes pour les minorités. C’est une façon d’être contre le faux universalisme. On est dans un contexte hétérosexuel non affiché. Certains discours d’études portant sur les sexualités ont tendance à créer des groupes qu’ils considèrent comme homogènes tels que « les lesbiennes », et ne parviennent donc pas à montrer la complexité des appartenances !

Ne va-t-on pas vers une disparition des normes ? C’est une utopie qu’elles disparaissent. Le souci dans ce contexte n’est pas celui de se faire accepter. Je n’ai rien à faire pour me faire tolérer ou accepter. Ce qui est revendiqué n’est pas le droit de s’uniformiser vers la norme. C’était un des débats sur le mariage pour tous. Devons-nous mettre du temps et de l’énergie pour une institution qui va nous faire assimiler à la norme et en laquelle nous ne croyons pas ? D’autres disaient qu’il fallait avoir le droit de le faire, avant de ne pas y recourir. Il y avait beaucoup de positionnements et de démarches. Il peut y avoir aussi un refus de s’assimiler à un système que l’on déteste, refus de rentrer dans le système qui contraint la liberté individuelle.

Compte Rendu rédigé par Olivier Milhaud, relu par les intervernant.e.s.

Testi Porno trash

 

« Fin dalla nostra infanzia, ci hanno fatto vergognare del nostro corpo. Tanto per cominciare, ci impediscono di masturbarci, con pretesti (…) assurdi, ci impediscono di mettere i gomiti sul tavolo, ci obbligano a non restare mai nudi. Ci fanno vergognare del nostro corpo perché traduce i nostri desideri, anche quando non osiamo dirlo. Ci hanno detto : sottomettetevi nella vostra carne, portate cravatte, mutande e reggiseni, fate il saluto militare, non sdraiatevi nel prato, non sedetevi nell’ufficio del vostro capo senza essere invitati, restate seduti in classe… […]

LIBERA DISPOSIZIONE DEL NOSTRO CORPO

Tout ! n. 12, 23 aprile 1971, Journal du groupe « Vive la révolution » FAHR

 

Il nostro corpo è in relazione continua con lo spazio, quindi dobbiamo

« riconoscere che gli individui nella società subiscono oppressioni legate alle loro caratteristiche fisiche. Il corpo umano non può essere trascurato quando studiamo la concezione che le persone hanno del pericolo, della distanza, della violenza, dell’ostilità del contesto in cui vivono, della salute e delle pratiche spaziali che mettono in atto »

Francine Barthe-Deloizy, 2003, Géographie de la nudité. Etre nu quelque part. Ed. Bréal.

 

Il nostro corpo « segna la frontiera tra sé e gli altri […] E’ un mezzo per entrare in contatto con lo spazio e per sperimentarlo »

Gill Valentine, 2001, Social Geographies: Space and Society, New York : Prentice Hall, p. 15.

 

Il nostro corpo è un supporto eccezionale d’esercizio della sovranità dello stato : non si governa solo la popolazione ma anche i singoli corpi, corpi produttivi e riproduttivi. Il nostro corpo è la frontiera tra l’intimo e il pubblico, lo spazio personale e individuale in cui vengono integrate o contestate le norme collettive. Il nostro corpo « non solo è nello spazio ma è spazio »

Johnston L. et Longhurst R., 2010, Space, Place, and Sex: Geographies of Sexualities, Lanham MD : Rowman and Littlefield.

 

Il nostro corpo

« è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni ».

Michel Foucault Sorvegliare e punire

 

Il nostro corpo,

« in realtà, è sempre altrove. È legato a tutti gli altrove del mondo. E, a dire il vero, è altrove solo nel mondo. Perché è intorno a esso che le cose si dispongono, è rispetto a esso, e rispetto a esso come rispetto a un sovrano, che ci sono un sopra, un sotto, una destra, una sinistra, un avanti, un dietro, un vicino, un lontano. Il corpo è il punto zero del mondo, là dove i percorsi e gli spazi si incrociano. Il corpo non è da nessuna parte ».

Michel Foucault, “Il corpo, luogo di utopia”

 

Ma il corpo delle donne

« è dappertutto, affisso, filmato, pubblicizzato. Corpo standard, stra-normato. Non ne posso più di queste immagini del corpo, messo in scena, codificato in modo da rispettare scrupolosamente le gerarchie sociali che dividono e mettono in relazione i corpi tra di loro ».

Ton corps est un champ de bataille (fanzina, Lione, 200?)

 

La guerra condotta contro il corpo delle donne

« è una guerra contro il nostro diritto di esistere così come siamo, con le nostre imperfezioni, i e difetti, […] le rughe, i segni, con i tratti con i quali siamo nate e che si trasformano nel corso della vita […] ». La guerra condotta contro il corpo delle donne « è anche una guerra contro il nostro diritto a esistere semplicemente, con tutte le nostre forze, i nostri limiti, le capacità e vulnerabilità, nella nostra completa diversità e nella nostra comune umanità ».

Carla Rice, 1994, Des territoires occupés : nos corps. Transformer la relation à notre corps. http://tahin-party.org/textes/carlarice.pdf “ Out from Under Occupation. Transforming Our Relationships with Our Bodies ” Canadian Woman Studies/Les Cahiers de la Femme, Volume 14, Number 3 (Juillet 1994).
La guerra condotta contro il corpo delle donne

« è anche un conflitto sulla razza e il colore della pelle. Conflitto che si gioca attraverso stereotipi, profondamente radicati, sul valore e la bellezza della bianchezza che impregna la nostra cultura e il nostro linguaggio, e che sono utilizzati per colonizzare le persone non bianche e le società non occidentali ».

Carla Rice, 1994, Des territoires occupés : nos corps. Transformer la relation à notre corps. http://tahin-party.org/textes/carlarice.pdfOut from Under Occupation. Transforming Our Relationships with Our Bodies ”  Canadian Woman Studies/Les Cahiers de la Femme, Volume 14, Number 3 (Juillet 1994).
E in mezzo a tutti questi corpi,

« c’è il mio corpo. Il mio corpo che sono io, che reagisce, che  si immobilizza. Somma di tutte le semantiche che si sono sviluppate attorno alla mia vita, che perde il pelo ma non il vizio, che imbianca ad andare con gli imbiancati, la cui capacità riproduttiva esplode e si annulla di fronte allo stress. Un corpo plasmato dal discorso collettivo, dal movimento, nel senso del poco sport che faccio, dal movimento nel senso di quello dei movimenti che ha fallito e che me lo scrive addosso. Polmoni che hanno respirato CS, ma testa che non è stata ancora mai rotta da un manganello. Figa penetrata da troppe persone che non ci si sarebbero dovute avvicinare, ano lavorato da lingue mani peni dildi, ma soprattutto bocca che ha dovuto ingoiare troppe volte lo schifo prodotto da questa società, il fascismo, la violenza sessista, la molestia indiscreta che si ripropone per strada, a casa, nel centro sociale. […] ».

Retroguardia
« un corpo nudo

non è solamente un corpo nudo

è un prodotto commerciale

un’arma di coscienza di massa

un territorio in guerra permanente

tutto dipende dal contesto in cui si mostra il corpo nudo

che fa il corpo nudo

di chi è il corpo nudo

com’è il corpo nudo

il contesto

il genere

la razza

la classe

l’età

variabili della differenza

variabili dell’oppressione

corpo di donna

corpo di donna nuda

oggetto da modellare

liposuzione

crema

depilazione

intimo delicato

e una borsa di vuitton

corpo di donna nuda

spazio da abitare

abitare, secondo Lefebre, è appropriarsi di qualcosa. Ma appropriarsi non è avere qualcosa in proprietà, ma fare un’opera, modellarla, formarla, metterci il proprio marchio.

corpo di donna

corpi poveri

corpi vecchi

corpi strani

corpi anormali

spazi da abitare,

da far appropriare,

per farne la LORO opera

per modellarla

formarla

metterci il proprio marchio

e se si ribella

e se resiste

e se non collabora con la loro oppressione

è un corpo da insultare

da incatenare

da violentare

stupro

arma di distruzione di massa […]

patriarcato

arma di distruzione di massa

corpo di donna

corpo di povera

corpo di negra

corpo di indigena

corpi strani

territori da occupare

secondo Michel Foucault, un territorio è una nozione giuridico-politica, e si riferisce a quello che è controllato da un certo tipo di potere territorio: ciò che è controllato da un certo tipo di potere corpo: ciò che è controllato da un certo tipo di potere quale potere? […]

Helen La Floresta« Donde yo mando », (traduzione dallo spagnolo di Alice)

 

Il mio corpo

E’ UN CAMPO DI BATTAGLIA

 I suoi limiti disegnano l’ordine morale e il significato del mondo. Pensare il corpo è un modo per pensare il mondo. E allora io il mio mondo, il mio corpo, lo vedo, lo penso, lo creo così…: « Cerco le mie immagini da me. Ludiche. Ho cominciato a dipingere corpi, spesso gli stessi. Androgini. Ritmi, carezze, proiezioni di molteplici desideri, dipingere è un piacere. Una libido in atto. Ma anche il pensiero di lottare contro un’idea di annichilimento che mi logora lentamente : la malattia […]. Il corpo come luogo di sofferenza deve diventare un luogo di godimento. Non mi prenderà di sorpresa. Sono io che costruisco la mia propria abitazione in questo corpo, serenamente godendo ».

Ton corps est un champ de bataille (fanzina, Lione, 200?)

 

« […] La contrasessualità è una creazione artistica e noi siamo le artiste del punto G. La mappa del mio corpo si compone di milioni di dildo, tanti orifizi quanti sono i pori della mia pelle e potrei venire sfregandoti il collo con il naso, mentre mi penetri inaspettatamente un punto considerato impenetrabile. Stolto quello che un giorno mi disse “Si ma con l’incavo del braccio di sicuro non vengo”. Lo abbiamo confutato. Collettivamente, con la pelle, con le mani con la testa ».

http://retroguard1a.noblogs.org/post/2012/12/15/cosa-puo-un-corpo/

 

 

« Gli spazi di libertà che i corpi si prendono sono a volte inaspettati nella loro imprevedibilità di fronte al potere ». http://retroguard1a.noblogs.org/post/2012/12/15/cosa-puo-un-corpo/

 

Per questo

« Ho cominciato a praticare le SM come bottom e continuo a mettere le gambe all’aria ogni tanto. […] Oltre ad essere sadica sono pure feticista del cuoio. Se non ricordo male, secondo Krafft-Ebing è un’altra delle cose che le donne non dovrebbero fare […]. [Quindi] io sono per forza di cose une obsedée sexuelle e le vere lesbiche non sono obsedée sexuelles. Sono le grandi sacerdotesse del femminismo che fanno uscire la rivoluzione delle donne dal cappello. Se ho ben capito, dopo la rivoluzione delle donne, la sessualità delle donne consisterà nel darsi la mano, togliere la camicetta e danzare sorridenti in cerchio. Poi tutte si addormenteranno insieme. Se non si addormenteranno tutte nello stesso tempo, potrebbe succede qualcos’altro – qualche cosa di assimilato agli uomini, d’oggettivante, di pornografico, di bruyant e che manca di dignità. Qualche cosa come un orgasmo »

Pat Califia, La face cachée de la sexualité lesbienne, 1979. In Sexe et utopie (2008), Paris: La Musardine (vers. or. Slut in Utopia: The Future of Radical Sex)

 

Se non godo, se non rido, se non canto, se non scopo, se non tocco, se non gioco, « se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione » Emma Goldman

 

E se non ci sono le mie amiche, « io non sono niente ».

Diana Pornoterrorista

 

Loro sono lì se mi traformo nella

« La bella addormentata nel bosco. Si dice di solito di un’amante che si è dimenticata di avere una clitoride. Cade allora in una specie di sonnolenza di cui nemmeno lei conosce il motivo. Può restare in questo stato per un lasso di tempo indeterminato. Si sa di una bella addormentata nel bosco particolarmente solitaria dal momento che questo stato l’ha presa mentre era in mezzo ad un bosco. Cento anni sono passati prima che una amante non la trovasse nel corso di una passeggiata. Lo stato di sonnolenza volge alla fine per la bella quando [le amanti] le ricorda(no) con delicatezza che ha una clitoride »

Wittig, Monique e Sande Zeig, 1976, Brouillon pour un dictionnaire des amantes. Parigi : Grasset

Voglio

« Peli Si chiamano peli il glorioso vello che ricopre le gambe, le braccia, le ascelle, il pube e parte del corpo. [Alcune amanti] ammirano i disegni che essi formano. Certe ammirano il colore dei peli o la loro lunghezza. Certe ammirano come essi si distribuiscono sul corpo. Per molte amanti sono da invidiare coloro che hanno peli vigorosi e neri. Queste tagliano i propri peli perché ricrescano più forti e spessi ».

Wittig, Monique e Sande Zeig, 1976, Brouillon pour un dictionnaire des amantes. Parigi : Grasset,

Non voglio

« Vestiti Le cantastorie dicono che quando capita di chiedere alle amanti dei popoli delle amanti come piaccia loro vestirsi, queste dicono che non le piace farlo e pare proprio che [sia così] ».

Wittig, Monique e Sande Zeig, 1976, Brouillon pour un dictionnaire des amantes. Parigi : Grasset.

« Cominciamo con un’evidenza : la nudità in sé non significa niente e si riduce, alla fine, ad essere uno stato, quello di un corpo che nessun involucro e nessun segno ricoprono. Ma questa incredibile neutralità si cancella nel momento in cui la si mette in relazione ad un luogo, un contesto […]. Spogliarsi per fare la doccia è considerata una necessità, una banalità, andare all’opera o al ristorante completamente nud è considerato esibizionismo o provocazione. […] Nel primo caso, si tratta di una pratica corporale igienica che si svolge nell’ambito dello spazio domestico, nell’altro di una pratica culturale che implica delle regole di socialità definite per uno spazio pubblico. La nudità si riassume allora a questo binomio individuo/collettivo-privato/pubblico che regola le pratiche sociali ? […] Nel corso della storia e con vari pretesti, la nudità è stata caricata di valori, norme, tabu. E’ diventata scandalosa, eccitante, mordiba o innocente. Costituisce l’elemento di un vocabolario, di un linguaggio che aiuta a capire le società nelle quali si mostra. […] Il luogo serve da criterio di valutazione della nudità : incongruo e shoccante in certe situazioni, ordinario e quotidiano in altre. Questa situazione di nudo ordinario o eccezionale, spettacolare o banale ha per effetto di caratterizzare i luoghi nei quali la nudità ha il suo posto o no. La nudità produce luoghi […]. Quando la nudità fa irruzione nello spazio pubblico […] produce un formidabile impatto visuale e un effetto sovversivo incontestabile. […] La nudità, individuale o collettiva, privata o pubblica, crea luoghi, territori, pratiche, lavora sulle norme, sui codici, sulle storie, sulla morale e le ideologie ».

Francine Barthe-Deloizy, 2003, Géographie de la nudité. Etre nu quelque part. Ed. Bréal.

 

La nudità produce relazioni, il mio corpo produce relazioni…

IL MIO CORPO E’ UN CAMPO GIOCHI

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